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Per sempre lassù

Procrastinare è, per me, un verbo inquietante. Letteralmente, dall’etimo latino, significa “rimandare a domani”, ma l’italiano l’ha eletto a rappresentare, in generale, il concetto di differire, temporeggiare (o anche) protrarre. E non a domani, ma ad un tempo indefinito.

Un bellissimo racconto di David Foster Wallace descrive in modo mirabile il concetto. È “Forever overhead” (tradotto in italiano “Per sempre lassù”). Nel giorno del suo tredicesimo compleanno, il protagonista trascorre il pomeriggio in piscina, in attesa della festa che i suoi gli hanno organizzato per la sera. E si trova a un certo punto a fare la fila per lanciarsi dal trampolino. Wallace dimostra tutta la sua maestria nel dilatare il tempo di un’azione che dura 1-2 minuti al massimo in un tempo, appunto, indefinito, con il ragazzino che si fissa su ogni più piccolo dettaglio della scala, della gente in fila, del trampolino, senza mai decidersi poi, quando viene il suo turno, a buttarsi in acqua. L’ombra lasciata sul bianco della plastica del trampolino dai residui di grasso corporeo di migliaia e migliaia di piedi prima dei suoi lo inquieta e lo atterrisce, mentre lui resta come paralizzato “lassù”. L’esatto contrario delle immagini di Tania Cagnotto che scandisce “Pronta? 1,2,3” alla compagna, prima del tuffo sincronizzato nella vasca olimpica, viste giusto ieri sera.

Forse il racconto mi piace così tanto non solo perché è un pezzo di letteratura da antologia, ma anche perché è un modo per descrivere il procrastinatore sufficientemente inquietante.

In fondo, potrei descrivere i miei peggiori momenti in compagnia dell’ansia proprio così: in attesa di trovare il coraggio di fare qualcosa, qualunque cosa, anche la più idiota delle cose, mentre la mente si sofferma su particolari insignificanti di ciò che mi circonda in quel momento.

Nell’estate del 1987 mi trovavo in vacanza dopo il diploma liceale a New York. A 20 anni (ancora da compiere) ero politicamente un anarcoide incazzoso, sinistrorso e ferocemente antiamericano, e mentre approfittavo dell’ospitalità di un uomo di affari amico di mio padre a Long Island, fantasticavo di partire per il Nicaragua a fare il volontario in un campo sandinista a raccogliere il caffè. Bill, il mio ospite, era all’epoca un cinquantenne di origini italo americane entusiasta fautore dell’american dream, e ogni volta che tornavo sull’argomento scuoteva la testa e cercava di dissuadermi. Gli sembrava impossibile che un ragazzo appena sbarcato a New York da Firenze non vedesse l’ora di andare a beccarsi una zecca in un campeggio in mezzo alla giungla, tra ragni, zanzare e kalashnikov. Ma poi, vedendo che di giorno in giorno tutto quello che facevo in realtà era smaltire i fumi della sbronza della sera prima a letto fino al pomeriggio per poi ricominciare con le mie fantasticherie, una domenica mattina mi svegliò con un bicchiere di acqua gelata in faccia. Erano “già” le 9, ed io stavo sprecando una bellissima giornata di sole a letto! A colazione, mentre biascicavo amaro una tazza di corn flakes, mi chiarì quale fosse il mio problema: “If you keep procrastinating things from day to day you won’t go anywhere in your life. You’re young and strong, it’s now the time to decide what you want to do, and it’s now the time to do it!”.

Oggi Bill è una delle persone a me più care. Abbiamo spesso rammentato insieme quei tempi, ed io – se ci penso bene – ogni volta che l’ho rivisto da allora non ho fatto altro che cercare di dimostrargli quanto fossi cambiato, che con gli anni ero diventato una persona che decideva e faceva senza por tempo in mezzo.

Ma ho sempre un po’ barato. Perché il procrastinatore non è morto, in me. Non ho mai davvero trovato il coraggio di farlo fuori. E c’è sempre immancabilmente lui dietro a un periodo buio. Lui è responsabile per ogni crisi di ansia, per ogni assalto di ipocondria, per ogni fallimento di un progetto. “Procrastinator” potrebbe essere per me il nome del peggior nemico di Superman, o di Batman, o di Spiderman, a vostro piacere. Lui è il cattivo, lui è il colpevole. Non io.


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