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Io&Paz (feat. Freak Antoni)

Quello che segue è il racconto della mia prima uscita da giornalista. E un memorabile incontro, anzi due.

Primavera 1983. Avevo 15 anni, e la faccenda fu di per sé un piccolo grande grandissimo happening: per la prima volta me ne andavo da Firenze senza genitori o nonni o fratelli o zie ad accompagnarmi. C'era però un adulto, Simone (lo chiamerò x per distinguerlo dal mio amico che si chiamava Simone anche lui), ed era suo cugino: a lui venne affidato il compito di accompagnare i due giornalisti in erba a Bologna, dove ci recavamo a realizzare un servizio per la fanzine che ciclostilavamo e consegnavamo in una ventina di copie a Contempo in via de'Neri: “La Cura”.

“Dobbiamo andare dove tutto è cominciato” diceva il mio amico, indiscusso direttore della fanzine, che nel suo incessante zelo aveva fatto in modo di contattare Roberto “Freak” Antoni, cantante (all'epoca ex) degli Skiantos per un'intervista. A quanto pare, era riuscito a prendere un mezzo appuntamento anche con il leader dei Gaznevada Ciro. Di certo avremmo fatto un salto in almeno uno dei luoghi cult del movimento di fine anni 70 a Bologna: il Disco d'Oro, negozio di dischi, nastri, bootleg e fanzine di riferimento. Ma Simone aveva in serbo un altro, disperato, tentativo: rintracciare e magari intervistare (e nei suoi sogni più proibiti convincere a collaborare coi suoi disegni alla fanzine) Andrea Pazienza, il fumettaro cult per eccellenza, creatore delle storie di Penthotal e Zanardi, oltre che parte del mucchio selvaggio editoriale del Male e all'epoca già artista riconosciuto e celebrato dalla parte più illuminata della cultura nazionale.

Viaggiammo su un treno di seconda classe, di quelli di allora con gli scompartimenti, chiacchierando col cugino, che era per noi poco meno di un vecchio, avendo la stratosferica età di 20 anni. Il mio amico fece in modo di cominciare da subito a farmi sentire a disagio con una serie ben studiata di battute e battutine. Ero un ospite indesiderato, un fardello imbarazzante: faceva parte della sua strategia mentale per rendersi certo di essere sempre lui il boss indiscusso. Del resto tutti i torti non li aveva: la parte organizzativa l'aveva gestita interamente lui, e il considerarmi qualcosa di più di un collaboratore al seguito sarebbe stato da parte sua una gentile concessione, che si guardò bene dal farmi. I ricordi che ho di quel pomeriggio sono sbiaditi, lontani e frammentari. C'era di sicuro l'eccitazione al pensiero di arrivare in una città diversa, combinata al pensiero conturbante di non essere più – per un pugno di ore almeno – un ginnasiale sbarbo ma un giornalista in missione. La giornata era calda e soleggiata, e cominciò nel migliore dei modi.

Arrivati in centro, Simone telefonò da una cabina a Freak Antoni, il quale gli confermò che sarebbe arrivato per l'intervista di lì a poco. Quando alla fine si materializzò, eravamo elettrizzati. Ci sedemmo al tavolino di un bar sotto i portici, ed aspettammo con ansia l'ordinazione di Freak: il titolo dell'album che aveva fatto esplodere a livello nazionale il fenomeno Skiantos un anno prima, “Kinotto (ad azione dissolvente)” ci autorizzava a credere che avrebbe senz'altro ordinato un chinotto (tipico ragionamento infantile, come se tutto nel mondo dovesse essere sempre perfettamente logico e conseguente). Lui giocò sulla cosa, e siccome all'epoca aveva litigato col resto del gruppo, ci pensò su un attimo dopo che Simone gli aveva suggerito con uno dei suoi ghigni sarcastico-paranoidi: “Ordinerai un chinotto scommetto”, poi voltandosi verso il cameriere emise la sentenza: “Preferirei un'aranciata amara, grazie”. L'intervista è riportata sul terzo numero de La Cura. Il direttore ebbe la bontà di scrivere in calce “L'intervista è stata realizzata da Simone ******* con la collaborazione di Simone x e Federico Da Rin”. I ragionamenti che il nostro svolse erano tutti orientati all'amarezza (l'ordinazione aveva dunque anche un secondo significato nascosto), nata da: 1) la rottura temporanea col resto del gruppo che dopo il successo di Mi piaccion le sbarbine voleva cavalcare l'onda commerciale e provare a fare un po' di soldi. Del singolo estratto da Kinotto era stato realizzato perfino una sottospecie di video, con loro che suonano il pezzo dentro la vetrina di un negozio coperti da lenzuola bianche in stile toga 2) il recentissimo scazzo con Carlo Massarini, che all'interno di Mr.Fantasy aveva ospitato i video di alcuni dei pezzi dallo sforzo solista di Freak, il cofanetto di singoli “L'incontenibile Freak Antoni”. Due delle canzoni erano cover di “Arrivederci Roma” e “I found my love in Portofino”, cantate con il falso accento inglese e il contorno di un'orchestra ubriaca. Tanto bastò perché Massarini dichiarasse a più riprese presentandolo che si trattava di "revival". La cosa non andò giù al nostro, convinto com'era che il revival fosse roba commerciale da rincoglioniti: la sua era un'operazione culturale ben diversa, che mirava a mettere in burletta – casomai – la musica e i miti degli anni '60 insieme a quelli falsamente nuovi anni '80. Il contatto col mondo della tv lo aveva lasciato disilluso e amareggiato come la sua aranciata. “In questo paese la gente è piatta di testa” fu il tormentone dell'intervista, che l'impeccabile direttore registrò sul suo mangianastri portatile. Alla fine Simone gli pose la fatidica domanda: “Sai dove possiamo trovare Andrea Pazienza?”. Ciro dei Gaznevada non si era fatto vedere, avevamo già ravanato al Disco d'Oro aspettando l'arrivo di Freak, quindi a quel punto non restava che tentare l'ultima carta prima di tornare nella città natia. La semplicità della risposta ci lasciò tutti sbalorditi. Roberto, o Beppe, o Astro, o Freak come lo volete chiamare (a lui stanno bene indifferentemente tutti i nomi) ci dette l'indirizzo, specificando che, se fosse stato in casa, ci avrebbe senz'altro concesso un'intervista. “Ma certo ragazzi: suonategli il campanello, Andrea è tranquillo” buttò lì serafico. Ci dette perfino le indicazioni su quale numero di autobus prendere, dopodiché partimmo, tutti resi un po' dubbiosi da quello che stavamo per fare: andare a suonare il campanello di casa di Andrea Pazienza, disegnatore, fumettista e illustratore di ormai chiara fama, non annunciati, un trio improbabile di due adolescenti e il cugino accompagnatore al seguito.

Ci aprì la porta un tipo con capelli lunghi e barba, stranito, che teneva in mano un vassoio ovale di alluminio con sopra qualcosa che lì per lì non riuscimmo a decifrare. – Sì? Chi siete? - domandò un po' sgarbatamente. Toccò al cugino-adulto Simone fare la presentazione, mentre accanto a lui il direttore si tormentava nervosamente le mani e io, dietro di loro, dovevo avere un'espressione di estatica attesa – Ah... aspettate. Sì, Andrea è in casa. Andreaaaaa! Vogliono te, sono dei tipi di Firenze, per un'intervista. Una fanzine indipendente... - sentimmo dirgli diretto verso il corridoio. L'Artista si materializzò subito dopo alle sue spalle. Ci sembrò che rimbrottasse a mezza voce il tipo, che spedì subito via in un'altra stanza facendoci contemporaneamente accomodare. – Scusate i modi, è quel coglionazzo di mio cugino – disse. Sembrava proprio una faccenda tra cugini, quel fatidico pomeriggio. Simone x, a quanto ci raccontò poi, aveva fatto in tempo a sbirciare dalla sua altezza di ventenne, e ad accorgersi che sul vassoio erano sistemate, tutte ben ordinate in sacchetti di plastica, varie sostanze stupefacenti. Andrenza, come talvolta si firmava, ci fece entrare in una stanza lunga e stretta, ingombrata per una buona metà da un tavolo di legno da supermarket del mobile: quella che doveva essere stata in origine la sala da pranzo del piccolo appartamento. Su un lato c'era uno scalcagnato divanetto basso, e la parete era dominata da un enorme poster che riproduceva in versione gigante una copertina realizzata per un album di Roberto Vecchioni (“Robinson”): un bosco d'autunno, magnifico. Si mostrò subito disponibilissimo, gentile, e sinceramente interessato a quanto stavamo facendo. Voleva sapere come stava andando il movimento a Firenze, se c'erano molti concerti, se ci divertivamo.

Ho paura di stare per diventare un pizzico sentimentale, ma è un ricordo dolcissimo quello che conservo di Pazienza: una persona speciale sul serio, di quei rari esseri umani che coniugano un debordante talento a una personalità magnetica e a un cuore generoso (l'unico altro personaggio che ho conosciuto e che regge il paragone è Joe Strummer. Sono morti tutti e due, il che mi fa riflettere sul luogo comune che sono sempre i migliori ad andarsene per primi). Allora però non ero affatto in grado di comprendere la sua grandezza: avevo a malapena visto qualche vignetta sul Male, che mio padre comprava talvolta. E a casa di Simone ero rimasto affascinato ma anche vagamente disorientato davanti alle tavole di Pentothal e di Zanardi. Fu solo un annetto e mezzo dopo che cominciai a frequentare più da vicino le sue storie e i suoi personaggi, e presi ad adorarlo incondizionatamente. Simone riattaccò il registratore e fece le sue domande. Lui rispondeva ma anche si scherniva quando lo sbarbo che aveva davanti sembrava prendersi/prenderlo troppo sul serio. A un certo punto compare una ragazza, la sua ragazza di allora, carina, mora, coi capelli a caschetto e la frangetta, e Andrea le chiede di portargli carta e pennarello. A richiesta, fece schizzi di Zanardi, li firmò e li regalò seduta stante ai due Simoni. Poi si rivolse a me, seduto in fondo al tavolo con un'espressione imbronciata perché mi sentivo sempre più escluso da quel che stava succedendo. Non avevo domande intelligenti da fare, non disegnavo, non ero neppure appassionato di fumetti, ultimamente mi sentivo sempre più estromesso dalla produzione della fanzine: che cazzo ci facevo lì? – Vuoi anche tu un disegno... scusa non ricordo più come ti chiami... E io: – Federico. No grazie, non importa. Coglione! Coglione! Coglione! Prima fitta al cuore: non ho accettato, quindi non ho avuto, quindi non ho conservato, quindi non ho successivamente incorniciato e tenuto tra le mie cose più care uno schizzo autografo di Andrea Pazienza. Ma, credeteci o no, non è finita qui. No, il mio esordio da giornalista mi riserva ancora due memorabili rimpianti, porca di una gran puttana. L'intervista è finita. Il direttore è più che entusiasta: ha perfino strappato ad Andrea la promessa (mai mantenuta) di spedire alcune tavole inedite da pubblicare sulla fanzine. Ci prepariamo ad andarcene, ma l'Artista ha deciso di volerci stupire fino in fondo. Anche lui deve uscire, non gli costa nulla passare dalla stazione, la sua macchina ha cinque posti: ci accompagnerà. Prima c'è ancora tempo per l'ultima sorpresa però. Ci porta nel suo studio: una stanzina minuscola, dominata da un grande tavolo da lavoro ingombro di fogli e matite (il tavolo dove crea, brividi di emozione percorrono la comitiva...). Su una libreria, i suoi albi sono allineati in buon ordine e in più copie: ci chiede di sceglierne uno a testa, dopo essersi scusato perché non possiamo prendere quello lì – "è l'ultimo che mi è rimasto" – e neppure quegli altri – "li ho già promessi a delle persone" –. (Acquolina nelle bocche della comitiva...). Io scelgo – fedele alla linea di understatement tenuta fin dall'inizio – l'ultimo uscito, il meno appetibile per un collezionista. È uno dei suoi lavori più umoristici, in stile Male: Pertini, serie di strisce con le esilaranti avventure da partigiani di Pert, affettuoso nomignolo dato al presidente della Repubblica Sandro Pertini, e Paz, il soprannome più noto del nostro. Ha una copertina gialla col faccione di Pertini, occhiali e pipa in bocca, mirabile caricatura. Primo errore: perso ormai irrimediabilmente nella timidezza più nera, a un passo dall'autismo, non gli chiedo di metterci su due righe di dedica. Secondo errore: anni e infinite letture dopo, e risate mie, del fratello e perfino di mio padre, l'albo si sfascia irrimediabilmente, le pagine si scollano e si mescolano. Si tratta dell'edizione originale, la prima uscita nelle librerie: valore commerciale indicativo sul mercato del fumetto un cinquantina di euro (dieci volte almeno se ci fosse anche la dedica); valore affettivo, a 25 anni di distanza: infinito, incommensurabile. E sì, avete capito bene: lo buttai! Insieme a stupide annate complete di Topolino e altri fumettacci finì in un puzzolente cassonetto... Cerco di vincere il mal di stomaco per arrivare all'ultimo rimpianto della giornata bolognese.

Qual era l'auto di Paz? Non me lo ricordo: potrebbe essere stata una R5, ma anche una Citroen o... non ricordo. Di sicuro era vecchia e scassata. Lui seduto alla guida e la ragazza accanto sono identici a due personaggi di una storia di Zanardi: occhiali neri da sole, jeans e giubbotti di pelle. Dietro, i due sbarbi più accompagnatore, ancora scossi dalle emozioni ed eccitati daccapo, perché Andrea Pazienza in persona ci sta portando al treno. Partiamo, e mentre percorriamo una strada trafficata, tra uno stop e un go della coda, Paz ci guarda dallo specchietto retrovisore e formula la seguente domanda (esattamente con queste 7 parole, non potrei mai scordarle): “Ragazzi, voi ve le fate le canne?”. Semplice, chiara e cristallina domanda, alla quale segue la MIA chiara e cristallina risposta, mentre i due Simoni stanno ancora cercando di focalizzare la cosa – No, assolutamente no! Mai! “No, assolutamente no! Mai!”?. Il cugino ventenne, dopo avermi fulminato con occhi iniettati di sangue, prova a balbettare qualcosa tipo “Ma... veramente non sarei così categorico, capita ogni tanto...”. Simone, che non beve nemmeno un goccio di vino a tavola coi suoi, e la cui trasgressione più spinta è uno schizzo di caffè nel latte del mattino, mi esprime con un'eloquente occhiata tutto il suo disprezzo, come se avessi appena detto una falsità assoluta, rovinando tutto (e c'aveva ragione lui). – Ah... no, era così, tanto per dire, non c'è problema. Paz chiude l'argomento, che non era evidentemente una personale analisi sociologica sui giovanotti fiorentini ma una proposta: se la risposta fosse stata un filino meno categorica, dal suo pacchetto di Marlboro o da quello della ragazza sarebbe uscita come per incanto una cannetta già preparata per il viaggio. È talmente ovvio che non ci sarebbe bisogno di dirlo. Io intanto continuo, non contento, a spiegare, non richiesto, i perché e i percome del mio netto rifiuto, suscitando le risatine sommesse di Paz e fidanzata. Così, dopo essermi perso lo schizzo autografo di Zanna, con in mano un albo senza dedica che avrei buttato al macero anni dopo come fosse un vecchio Diabolik, avevo appena detto no alla mia prima canna con Andrea Pazienza. Complimenti: en plein! E grazie mamma: la tua strategia del terrore sulle droghe ha funzionato a meraviglia. Lo so che avevi ragione, e che Andrea è morto sei anni dopo nel fiore degli anni e della creatività come un coglione, nel bagno di casa sua durante una festa per una pera di troppo. Ma la tua saggezza mi ha negato un'esperienza che avrei raccontato con orgoglio qualche migliaio di volte, fino alla vecchiaia, e che sarebbe valsa un altro migliaio di volte i brividi di nausea che sarebbero seguiti al fatidico primo tiro (ma forse neanche, visto che all'epoca ero già un accanito fumatore di sigarette). Tra una ventina d'anni, con un plaid sulle ginocchia, dopo aver rifiutato l'offerta di una sigaretta a causa della bronchite asmatica cronica, avrei potuto assumere un'aria da duro e dire ridendo sotto i baffi ai nipoti: "Mi ricordo ancora di quando fumai la mia prima canna. Ero in macchina con due amici, una ragazza e Andrea Pazienza a Bologna, nella primavera del 1983".


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