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Radici

Ora che con mia moglie stiamo cercando casa proprio in quei paraggi (dove per adesso stiamo in affitto), mi è del tutto e definitivamente chiaro il luogo del mondo a cui appartengo. Si trova tra Monticelli e Legnaia a Firenze. E questo estratto dalle mie memorie inedite (ebbene sì) spiega alcuni perché...

"La casa al primo piano dove ho trascorso i miei primi 16 anni era stata acquistata da babbo e mamma con un doloroso mutuo al momento del matrimonio, nel 1962. A quell'epoca, la zona dove il condominio sorgeva, nel suo classico stile anni '60 squadrato e senza carattere da funzionalismo de noantri, era ancora per tre quarti aperta campagna. Una piana di prati e orticelli interrotta qua e là da una modesta colonica destinata all'esproprio, con la via di Scandicci come confine e principale arteria di collegamento tra il centro e la periferia. Nicola Pisano, dignitoso pittore del 400, dava il nome alla strada, nata appositamente come sfogo alla decina di condomini che vi si affacciavano. Finiti i big per le strade del centro, dove erano stati convenientemente piazzati Michelangelo, Giotto, Cimabue, Galileo e Brunelleschi, la scarsa fantasia degli urbanisti dell'epoca aveva destinato a quella nuova fetta di città le seconde file dei talenti rinascimentali. Così accanto a Nicola ci sono Duccio da Buoninsegna, Coppo di Marcovaldo e lo Starnina. Legnaia il quartiere, al confine con Monticelli e Soffiano e a cinque minuti di auto da Scandicci. Da parecchi punti di vista, un posto ideale dove crescere: senza strade ad alto scorrimento che lo attraversavano, ma con molti cortili e piazzette dove giocare a calcio, gli scampoli di campagna risparmiati dalla speculazione edilizia per fare cross con la bici, e la mamma che quando era ora di tornare a casa si affacciava alla terrazza e gridava "Federiiicoooo!! Gabrieeele!!". Il bar "Bibi" all'angolo, Mecca delle schifezze chimiche di cui ci rimpinzavamo quotidianamente: i ghiaccioli nelle bustine di carta trasparente con gli stecchi di legno, da ciucciarsi vigorosamente o piano piano per i più viziosi, lasciando goggiolare sulla maglietta lo sciroppo, o mordere direttamente quando la sete era insopportabile (il più buono era quello all'amarena colorato con l'E123, componente presto bandito per legge perché violentemente cancerogeno, ma anche il gusto Cola andava forte. Il bianco limone era il classico, la trasgressione più blanda l'arancio, l'extra quello al cioccolato che però bisognava andare a comprare alla latteria, a 500 lunghissimi metri di distanza, praticamente un altro mondo), la coca cola in bottiglia (quelle belle bottiglie di vetro spesso di una volta, alla faccia del riciclo perché vuoto a rendere, dove ce ne stava di più ed era più buona di quella che c'è oggi, non c'è un cazzo da fare, forse ci mettevano più caramello e meno CO2 vai a sapere), i panini al prosciutto cotto strabuzzanti maionese, le merendine Saiwa e, a partire dai 10 anni, le sigarette (John Player Special, perché era il pacchetto più bello, nero e oro). Ma, soprattutto, i cantieri! Mi domando ora quante e quante volte abbia rischiato la vita scorrazzando tra travi, solai e scantinati dei condomini in costruzione coi miei amici del quartierino. Mia madre doveva essere pazza a lasciarmelo fare: io non potrei permetterlo ai miei, di figli, maledetta ansia. Perché invece era bello, no di più, magico quel mondo fatto di cose provvisorie che creavano scenari di giorno in giorno sempre diversi. Le fondamenta, ideale campo di calcio prima della gettata di cemento, diventavano, col proseguire della costruzione dei piani, il ricettacolo delle cose da fare di nascosto. Io e i miei amici ci limitavamo a fumarci le sigarette (senza aspirare) o a sbirciare ignari e sbalorditi le riviste porno stropicciate e incalcinate, abbandonate in giro da quei gran maiali onanisti dei manovali. Ma – gli anni erano quelli "d'oro", i '70 – c'erano i più grandi che lì sotto si sparavano delle gran pere, mica storie. Ricordo che c'era questo tipo ormai rinomato nel quartiere come tossico che, quando lo vedevamo appartarsi, con la combriccola degli amichetti andavamo a sbirciare da un'apertura nelle assi per scoprire il segreto brutto della droga. Lui però se ne accorgeva sempre, e ci faceva scappare a urli, minacce e lanci di pietre prima di aver cominciato le misteriose ma sicuramente nefande procedure. L'educazione alla droga in casa mia si basò da subito sul più bieco terrorismo psicologico. Mia madre ci ripeteva continuamente che quella era la rovina dei giovani, che a farsi la droga si MORIVA, che non ascoltassimo MAI chi ci diceva che c'erano droghe "belle" o "leggere", che invece era tutta una merda pericolosissima, e a riprova ci faceva vedere, come fosse un'icona apotropaica, la foto del tossico rinvenuto morto su una panchina di un parco milanese: quella di lui con la testa capelluta rovesciata all'indietro, avvolto in una enorme sciarpa bianca e giubbotto scuro, il braccio sinistro con la manica arrotolata abbandonato di lato esanime dopo la botta fatale, entrata in tutte le classifiche delle foto dell'anno nel '77, insieme a quella dell'autonomo con la p38 spianata, jeans attillati a campana, stivaletti, giacchetta stretta e passamontagna. Sui settimanali che circolavano in casa, Europeo, Panorama e l'Espresso, i reportage che si dividevano le pagine centrali erano su: terrorismo, droga, corruzione dei politici e follie del jet set" [...]


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